Intervista ai Linea 77, in tour con ‘C’Eravamo Tanto Armati’
In occasione della tappa torinese del 'C'Eravamo Tanto Armati Tour', Cube Magazine ha incontrato i Linea 77 ed ha parlato dei progetti della band.
I Linea 77 sono nati a Torino, città della Fiat, delle fabbriche, del gianduia e della noia grigia che avvolge ogni cosa come un velo mortuario. Cinque ragazzi di Venaria, borgo della cintura suburbana, decidono di suonare: rock, metal, crossover. È una questione di sopravvivenza; è il 1993 e nascono i Linea 77. Il nome arriva dalla linea dell’autobus che li preleva vicino a casa e li porta alla sala prove. E’ subito successo, che li porta a crescere, fino a toccare picchi incredibili e gratificazioni nella mai facile Inghilterra. Oggi dopo qualche vicissitudine, sono ritornati alle loro origini, fatte di sano amore per la musica.
In occasione del concerto tenuto la scorsa settimana all’Hiroshima Mon Amour, ci siamo fatti raccontare la loro storia, in questa intervista, rilasciata da Davide ‘Dade’ Pavanello.
Cube Magazine: Questa sera a Torino vivrete una nuova tappa del tour che si intitola ‘C’eravamo tanto armati’, così come il disco che avrebbe dovuto uscire in primavera e probabilmente non uscirà mai…
L77: «Ripensandoci bene è stato un titolo premonitore. Il disco era pronto, però non è mai uscito. E’ successa una cosa assurda per il 2014. Siamo rimasti folgorati sotto tutti i punti di vista. Il giorno che stavamo facendo il back up dell’hard disk che conteneva le tracce definitive dell’Ep, non ci trovavamo nel nostro studio, ma a casa mia, dove probabilmente c’è un impianto elettrico antidiluviano. Il caso ha voluto che un black out che abbia colpito tutto il quartiere Vanchiglia, abbia determinato un corto circuito che ha bruciato tutto quanto. Di solito in questi casi è possibile recuperare i dati. Noi siamo andati in ben tre centri specializzati e non ci siamo riusciti».
CM: E così avete deciso di rinunciare?
L77: «In realtà avremmo potuto ricominciare tutto daccapo, forse in un mese avremmo rimesso le cose a posto. Non lo abbiamo fatto perché eravamo depressi. Abbiamo dato la colpa al destino e poiché avevamo altri brani che erano rimasti fuori, abbiamo deciso di concentrarci su un nuovo lavoro, che sarà un intero Cd, che probabilmente uscirà in autunno. Tra un paio di settimane entreremo in studio di registrazione. Possiamo solo anticipare che non si chiamerà più C’eravamo tanto armati, anche un po’ per scaramanzia».
CM: Parliamo dei Linea dal punto di vista musicale. La critica musicale vi accredita dei generi più disparati, dall’alternative rock, al punk, al metal. A noi ha incuriosito, invece, quella di band ‘Happy Core’: che cosa significa?
L77: «Fondamentalmente non abbiamo mai digerito il fatto che qualcuno ci mettesse delle etichette. Soprattutto perché noi proponiamo un mix musicale a 360°. Principalmente le due branche principali che ispirano il nostro lavoro è il Punk Rock o Punk Hard Core e il Rap Hip Hop. La critica ha definito questo genere Cross over, ma noi non ci siamo riconosciuti in questa denominazione. Così ci siamo inventati l’Happy Core, che non ha nessun significato, se non quello di dire che siamo una band felice».
CM: In realtà non sentendo i vostri testi non apparite così contenti…
L77: «E’ vero, le nostre canzoni sono dark, specialmente negli ultimi anni. In realtà per noi fare musica è una festa, specialmente se possiamo suonare su un palco davanti al nostro pubblico. La nostra è rabbia positiva, non violenza, che noi ripudiamo».
CM: Siete una band indipendente e underground. Tuttavia quando avete firmato per l’etichetta inglese Earache Record siete addirittura saliti sul palco del festival di Reading, cosa che assai raramente è capitato per un gruppo italiano. Avete mai pensato di spiccare il volo verso il mainstream?
L77: «Non ci abbiamo mai pensato. I giochi di mercato ci sono stati sempre stretti. Non sappiamo confrontarci con queste logiche. Noi, come molti altri gruppi che abbiamo conosciuto nella nostra carriera, amiamo fare musica, quando saliamo su un palco diventiamo dei giganti, ma poi non ci piace badare all’immagine. Per noi la musica viene prima di tutto, anche del marketing. Questa cosa, specie al giorno d’oggi è un grave problema, ma noi siamo fatti così e non ci piace cambiare. Siamo Torinesi e questo spirito intraprendente non ce l’abbiamo, fossimo milanesi, forse sarebbe un po’ diverso. Anche se tra dieci anni saremo chiamati ad esibirci in una cantinaccia putrida noi saremo comunque felici».
CM: Dracma, Earache, Universal ed oggi Inri, come è cambiato il vostro modo di approcciarvi alla sala di incisione, passando da un’etichetta all’altra?
L77: «Abbiamo fatto un cerchio perfetto. Siamo partiti dall’assoluta spontaneità nel preparare i pezzi, per passare all’Earanche, dove le pressioni, specie in termini di tempo erano già forti. Poi è arrivata l’Universal, una major dove i ritmi di lavoro sono serrati. Tutto era organizzato, le pressioni erano fortissime, forse troppo. Il primo disco è andato, ma il secondo (10 ndr) è stato uno dei più grossi fallimenti, forse proprio a causa di tutti gli impegni. Ora siamo alla Inri, dove siamo ritornati a vivere il nostro sottobosco. L’etichetta è stata fondata da me e mio fratello con il desiderio di dare una voce a tanti talenti inespressi. Oggi siamo più felici che mai, perché abbiamo ritrovato il tempo perduto».
CM: Siete nati come cover band di due gruppi: i Rage against the machine e Deftones, che poi avete affiancato sul palco… cosa significa questo traguardo?
L77: «Abbiamo suonato con loro e con altre band che per noi rappresentavano il mito. Suonare con loro è stato come per un prete chiacchierare con Gesù Cristo. Sono state due emozioni fortissime. Con i Deftones abbiamo suonato qui a Torino, mentre con i Rage, che è il nostro gruppo ideale e preferito, ci siamo esibiti nello stadio Braglia di Modena. Un ricordo che sarà come un tatuaggio, non lo cancelleremo mai, anche perché siamo riusciti a conoscerli, a vedere il loro concerto direttamente sul palco. Ragazzi famosissimi, ma altrettanto umili ed ospitali».
CM: Tra le vicende più dolorose della band c’è di sicuro l’abbandono di Emi, membro storico dei Linea. Nelle vostre biografie c’è scritto che l’avete invitato ad andarsene. Questo vuol dire che non è possibile il dibattito in seno al gruppo?
L77: «Al contrario. I Linea 77 sono da sempre una delle più grandi democrazie musicali della storia, forse troppo. Se ci sono cinque teste pensanti, che hanno vite e obiettivi diversi, alla fine diventa difficile far convivere tutte le esigenze. La democrazia ha vacillato quando quattro membri erano condizionati dai bisogni del quinto, che non aveva alcuna intenzione di venire incontro. Per anni è bastato che uno solo sollevasse un problema per condizionare le scelte di tutti, ma alla fine questa non è democrazia. Così abbiamo più volte detto: occorre adeguarsi alla maggioranza. Prima di questo split ci sono stati innumerevoli tentativi di mediazione e riappacificazione, ma alla fine è stato ineluttabile e dolorosissimo».
CM: Dove si vede la vera essenza dei Linea 77?
L77: «Sicuramente quando saliamo sul palco. Noi siamo mai riusciti ad essere così completi in sala d’incisione, così come quando ci esibiamo dal vivo. E’ un’alchimia che si crea tra noi e il pubblico, che ci dà una carica fantastica. In molti dischi abbiamo toccato picchi di unione e creatività, ma credo che se potessimo incidere un qualcosa, improvvisandolo direttamente durante un concerto, probabilmente verrebbe fuori un qualcosa di fantastico ed eccezionale».