Intervista esclusiva a Steven Wilson, in concerto a Torino
In occasione della data torinese del suo tour da solista, Steven Wilson è stato intercettato dai microfoni di Cube Magazine, ecco cosa ci ha raccontato..
Steven Wilson è stato in questi giorni in tournee presentando il suo progetto solista. Il musicista, già frontman dei Porcupine Tree, oggi ha scelto di percorrere nuove strade, forse meno sperimentali, ma sicuramente più divertenti. E il risultato emerge cristallino assistendo ad un suo spettacolo. Circondato da musicisti di altissimo livello, si è esibito nell’arena del Gru Village di Grugliasco di Torino. Di fronte ad un pubblico sognante ha offerto due ore abbondanti di grande musica, riscuotendo un’ovazione sincera da parte di chi ha apprezzato fino all’ultima nota. Poco prima di salire sul palco, grazie a Live Nation, Las Chicas Adfarm, Gru Village abbiamo avuto la fortuna di raccogliere in esclusiva le impressioni dell’artista. Ecco cosa ci ha raccontato di sé.
Steven, sei un musicista autodidatta, come sei riuscito ad imparare a suonare così tanti strumenti?
«In realtà non ho raggiunto livelli altissimi nel suonare gli strumenti. Io suono un po’ la chitarra, un po’ le tastiere, un po’ il basso. In principio volevo semplicemente scrivere testi, fare musica e produrre dischi. Se ho iniziato a suonare è soltanto perché quando sono partito per questa avventura, non era così semplice trovare strumentisti che fossero interessati a fare il genere di musica che a me piaceva. Stiamo parlando della fine degli anni ’80 e inizio degli anni ’90. Per sopperire a questa mancanza ho imparato a programmare la batteria, a suonare il basso e la chitarra ed anche cantare, il tutto per essere in grado di riprodurre quei suoni che avevo nella mia testa».
A noi sembra che tu abbia raggiunto davvero degli ottimi livelli però…
«Fa molto piacere sentirselo dire, ma io credo di essere un musicista di livello base, se rapportato ai componenti della band che suonano con me. Diciamo che da autodidatta ho imparato ad ascoltare, registrare e copiare e questo mi basta».
Al riguardo, come scegli i musicisti che ti accompagnano e che livello di contributo ti danno quando ti accingi a scrivere un pezzo?
«Intanto dico che mi sono circondato di grandissimi musicisti. Con alcuni avevo già lavorato, altri mi sono stati consigliati. Per il chitarrista, ad esempio, ho avuto alcuni problemi, fino a quando non ho conosciuto Govan Guthrie, con cui si è stabilita immediatamente la giusta chimica. Quanto al contributo, dico che non ci sarebbe motivo di circondarsi di così fantastici musicisti se non fossi dell’idea di lasciarli liberi di esprimersi con le loro idee. Nell’attuale band in particolare, tutto il materiale composto è molto fedele alla mia scrittura, ma è arricchito dagli assoli, che sono a totale discrezione dei miei collaboratori».
Quando scrivi un pezzo, come fai a decidere per quale progetto è più adatto?
«Quando scrivo un pezzo per i gruppi con cui collaboro (Storm Corrosion, No man ad esempio ndr), non lo faccio da solo, ma ciò che viene prodotto è il frutto della collaborazione di tutti. Ultimamente scrivo da solo e lo faccio per il mio progetto solista. Quanto ai Porcupine Tree attualmente sono inattivi».
E’ solo una nostra impressione o il tuo progetto solista ha regalato al pubblico un Steven Wilson più sereno e felice di mostrare ciò che fa?
«Sì dici il vero. Quando iniziai a fare musica ero un ragazzo e il mio sogno non era quello di fare il musicista vero e proprio, ma il direttore d’orchestra. Speravo di poter avere a disposizione i migliori strumentisti e far fare loro ogni cosa mi passasse per la testa. Quando per esempio ho avviato il progetto dei Porcupine Tree la cosa mi sembrava limitativa, oggi mi sento come liberato e vicino a realizzare il mio sogno».
Allora sei davvero più felice…anche sul palco…
«Sicuramente mi sento più libero, perché posso salire sul palco avendo al mio fianco una band fantastica che potrebbe suonare anche senza di me. Quando mi esibisco posso scegliere se suonare la chitarra, se cantare, insomma c’è molto spazio per improvvisare, cosa che con i Porcupine non era possibile. Ogni show era sempre lo stesso, oggi ogni spettacolo è diverso dall’altro. Amo improvvisare perché mi rende fresco».
Hai remixato moltissimi classici dei gruppi progressivi (King Crimson, E.L.&P., Caravan…). Qual è il tuo approccio in questo tipo di lavoro?
«Il mio approccio è molto semplice perché lavoro su dischi che davvero amo. L’unica eccezione è stata per gli Emerson Lake & Palmer di cui davvero non posso dire di essere fan. Credo che in questo caso sia stato un errore l’aver accettato di remixarli e in futuro non lo rifarò più. In cosa consiste il mio lavoro? Quello di ascoltare questi capolavori e, un po’ come fa un restauratore con la Cappella Sistina, semplicemente ripulirli dalle impurità. Quando tu operi su un’opera d’arte non puoi cambiare nulla, devi solo restituirgli la chiarezza, la lucentezza e l’attenzione per il dettaglio. Un’azione che è resa possibile con la moderna tecnologia. In questo momento sto lavorando sugli Yes e gli Xtc che fanno parte del mio dna musicale»
Conosci qualche band italiana?
«Naturalmente. Le mie favorite sono probabilmente la Premiata Forneria Marconi e gli Area. Amo il jazz primordiale degli Area, gli Arti e Mestieri e le influenze dei King Crimson che regalano quelli della Pfm. Ritengo siano due interessanti esempi della qualità musicale italiana».
Hai mai suonato con loro?
«Ho suonato a Sanremo con la Pfm e poi mi sono esibito a Roma, insieme con Il Balletto di Bronzo, che ci hanno fatto da supporto. Mi è piaciuto moltissimo».
Che cosa ascolti oggi? Sei interessato alle nuove band inglesi o americane?
«Il problema è questo: sono cresciuto ascoltando quello che tu chiami prog. Non mi vergogno di essere associato a questa scena ma penso che la parola prog suoni come qualcosa di antiquato per un gruppo ristretto di persone, una cricca. Progressive, invece, è ok o almeno ha un significato. Detto questo non ascolto assolutamente quei gruppi che oggi producono musica progressiva. Sono orientato verso i suoni che si ascoltavano negli anni ’70, me lo impone il dna. Di ciò che oggi c’è in giro, nulla si avvicina a ciò che vorrei ascoltare. Forse l’unica eccezione sono i miei amici Opeth, che per altro offrono una progressiva fusa con sonorità metal. Ecco credo che loro siano quantomeno innovativi. Diciamo che se devo ascoltare nuove band, allora prediligo quelle che suonano musica elettronica o propongono cose nuove»