Ran Blake dalla penombra incanta il pubblico del Teatro Manzoni
Il pianista Ran Blake si è esibito domenica al Teatro Manzoni di Milano, nell'ambito della rassegna 'Aperitivo In Concerto'.
Il pianista Ran Blake è una vera leggenda della musica americana contemporanea. Allievo di Mary Lou Williams, vicinissimo a Thelonious Monk, direttore dello Third Stream Department al New England Conservatory di Boston, ha avuto fra i suoi allievi Matthew Shipp, Ricky Ford, John Medeski e Don Byron, collaboratore di musicisti quali Gunther Schuller, Steve Lacy, Clifford Jordan, Jeanne Lee, Jaki Byard.
Ran Blake è un incantevole poeta solitario, creatore di un pianismo notturno e ricchissimo di sfumature, echi, ricordi, brandelli di ritmi e melodie che, pur modernissimo nel linguaggio, esplora con elegante costanza anche l’intero American Songbook, dando nuova veste, nuovi significati e nuova vita al repertorio dei cosiddetti standard.
A Milano, Blake si è esibito affiancato dal trombonista Aaron J. Harley e dalla virtuosa violinista Eden MacAdam-Somer, attualmente solista di un gruppo come la Klezmer Conservatory Band di Boston. Intervistato dalla rivista ‘Musica Jazz’, Blake ha anticipato parte del programma del suo atteso concerto milanese:
“Interpreteremo musica di Konrad Elfers, dal film ‘Dr. Mabuse’. Aaron suonerà un po’ di Billy Strayhorn. Riproporremo qualcosa dal repertorio di ‘The Unmarked Van’ e improvviseremo su temi che ho creato per la scena della scalinata della ‘Scala a chiocciola’. So che ci saranno brani dedicati a Mahalia Jackson, Chris Connor e Abbey Lincoln, e io farò un assolo su “Freedom Day” di Max Roach”.
L’esibizione completata da filmati d’epoca, è stata di grande intensità con continue citazioni durante i lunghi assoli Blake in grado di passare con disinvoltura da ‘Bella ciao’ a ‘Freedom Day‘ ha regalato al numeroso pubblico presente un lunghissimo istante di emozionante estasi musicale.
Ran Blake, definito da Paolino Della Porta ‘Il Frank Zappa del pianoforte’ ci ha offerto una dimostrazione pratica di quanto conti possedere quello che i jazzisti della vecchia leva chiamano ‘il tocco’, che nulla ha a che vedere con la quantità di note prodotte o la velocità con cui le si produce, ma piuttosto, con la delicatezza e l’intensità del suono, e con la capacità di trasmettere tale intensità all’ascolto del pubblico.